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Spunti di riflessione sulla recente sentenza n. 150/2020 della Corte Costituzionale, che ha in parte dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 4 del Decreto c.d. Tutele Crescenti

 

A pochi giorni dall’approvazione del c.d. Decreto Agosto, che proroga, con alcune deroghe, il divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, mi pare interessante ricordare che, solo qualche settimana fa, la Corte Costituzionale abbia dichiarato l’illegittimità dell’art. 4 del D.Lgs. n. 23/2015 (c.d. Tutele Crescenti), nella parte in cui prevedeva un criterio legato alla sola anzianità di servizio, per la determinazione dell’indennità da corrispondere nell’ipotesi di licenziamento viziato dal punto di vista formale o procedurale. 

Certo pareva scontato arrivare a questa conclusione, dopo che la Corte aveva già dichiarato, per i medesimi motivi, l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 del medesimo decreto. La lettura della sentenza è tuttavia interessante – come spesso accade – per quanto la Corte afferma obiter e finanche per quanto non dice, fermandosi sulla soglia delle censure prospettate nell’ordinanza di rimessione, oltre le quali il Giudice delle Leggi non può spingere il proprio accertamento.

Rimane infatti in sottofondo la sensazione che sia stata aperta una finestra, su una messa in discussione più radicale della normativa in questione. Il punto dolente è infatti se sia possibile (o meglio, costituzionalmente legittimo), distinguere tra vizi formali e vizi sostanziali del licenziamento, nell’ambito di una procedura disciplinare.

E’ ben noto che la giurisprudenza si sia espressa spesso e volentieri affermando che in ambito disciplinare “la forma è sostanza”, quando incida sul diritto di difesa del lavoratore.Si è a tale proposito affermato, ed è stato di recente ribadito dalla Cassazione, che, nell’ambito di un licenziamento disciplinare, il radicale difetto di contestazione dell’infrazione determini l’inesistenza dell’intero procedimento, e non solo l’inosservanza delle norme che lo disciplinano, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria (così, in ultimo, Cassazione civile sez. lav., sent. 24 febbraio 2020, n.4879).

Anche la Corte Costituzionale, nella sentenza in commento, non si esime dal ricordare l’importanza delle norme che governano il procedimento disciplinare, laddove scrive che “le prescrizioni formali, la cui violazione la disposizione censurata ha inteso sanzionare con la tutela indennitaria, rivestono una essenziale funzione di garanzia, ispirata a valori di civiltà giuridica. Nell’ambito della disciplina dei licenziamenti, il rispetto della forma e delle procedure assume un rilievo ancora più pregnante, poiché segna le tappe di un lungo cammino nella progressiva attuazione dei princìpi costituzionali”.

In tale ottica, la Corte afferma che le garanzie sancite dall’art. 2 della legge n. 604 del 1966 e dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori rappresentino prescrizioni non già meramente formali, ma poste a tutela del lavoro, per concludere che il Legislatore del 2015, “pur potendo modulare la tutela in chiave eminentemente monetaria”, nel momento in cui ha vincolato la quantificazione del risarcimento ad un criterio fisso, non abbia previsto una tutela adeguata a garantire il lavoratore.

Il meccanismo di predeterminazione degli importi, su cui si fondava l’impianto delle c.d. Tutele crescenti e che toglieva al Giudice del lavoro la possibilità di decidere in base al caso concreto l’ammontare delle mensilità dovute, in favore di un rischio di causa conoscibile ex ante, è dunque stato del tutto scardinato.

Rimane però un dubbio, sul quale la Corte dice e non dice: se il Legislatore può decidere che l’illegittimità formale del licenziamento non meriti la reintegrazione sul posto di lavoro (salvi i correttivi già approntati dalla giurisprudenza di legittimità sul caso limite dell’assenza totale di contestazione, sopra richiamati), ma il solo ristoro economico, è legittima una differenziazione così marcata tra il numero di mensilità riconosciute al lavoratore dall’art. 3 in caso di illegittimità sostanziale del recesso per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, rispetto ai casi di illegittimità formaleTanto più che, come ricorda il Giudice delle Leggi, la previsione in questione non riconosce soltanto una tutela economica per il lavoratore, ma stabilisce anche una sanzione, atta a dissuadere il datore di lavoro dal violare le garanzie di legge.

Ebbene, l’ipotesi di illegittimità sostanziale di cui all’art. 3 prevede una forbice da 6 a 36 mensilità (dopo l’intervento del Decreto Dignità; originariamente invece ci si muoveva tra le 2 e le 24 mensilità), a fronte di un importo per le fattispecie legate a vizi formali e procedurali che va dalle 2 alle 12 mensilità.Seguendo il ragionamento della Corte Costituzionale, se la forma è sostanza, non vi è il rischio che il risarcimento in questione sia talmente blando da svuotare di fatto il contenuto precettivo delle norme relative al procedimento disciplinare, anche di quelle poste a presidio di interessi costituzionalmente rilevanti?

In altri termini, dobbiamo aspettarci che la Corte in futuro riterrà la misura del risarcimento prevista dalle c.d. Tutele Crescenti, oltre che inadeguata quanto al vincolo della predeterminazione legata all’anzianità, anche inidonea per il numero di mensilità complessivamente riconosciute al lavoratore, soprattutto alla luce del notevole gap che si è venuto a creare tra le tutele previste dagli articoli 3 e 4, a seguito delle modifiche apportate dal Decreto Dignità?

In verità, la risposta a questa domanda potrebbe rivelarsi non necessaria, se soltanto il Legislatore avesse finalmente il coraggio di seguire il monito con cui si chiude la pronuncia in commento: “spetta alla responsabilità del legislatore, anche alla luce delle indicazioni enunciate in più occasioni da questa Corte, ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari”.

 

Avv. Gaia Fratini

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