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Covid e responsabilità dell’imprenditore, lo stato dell’arte

 

Infortunio da Covid 19 e obblighi dell’imprenditore: l’art 29 bis, aggiunto al D.L. Liquidità in sede di conversione, esonera il datore di lavoro dalla responsabilità ex art. 2087 CC?

Il 6 giugno scorso è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la Legge n. 40/20, che converte in legge, con modificazioni, il DL n. 23/2020, c.d. Decreto Liquidità.

Accantonata l’idea, difficilmente percorribile, del c.d. “scudo penale”, il Legislatore, a seguito dell’acceso dibattito insorto a partire dalla qualificazione come infortunio del contagio da Covid 19 sul posto di lavoro, ha inserito in sede di conversione una nuova disposizione, l’art. 29 bis, relativa agli “Obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da COVID-19”, con la quale, almeno nelle intenzioni, si propone di delimitare l’ambito della responsabilità ex art. 2087 CC del datore di lavoro. 

Gli esiti di tale operazione, tuttavia, sono quanto mai discutibili.

In realtà, la norma non ha una valenza derogatoria rispetto all’attuale impianto di responsabilità datoriali in materia di sicurezza, ma individua, con il valore di legge – e non già di DPCM o di circolare amministrativa – una serie di obblighi in capo all’imprenditore ai fini della prevenzione dell’infortunio da COVID 19, la cui ottemperanza e mantenimento nel tempo sollevano l’imprenditore dalla sola responsabilità civile ex art 2087 C.C.. Già lo diceva l’art. 2087 CC, che il datore di lavoro non è certo responsabile di ogni infortunio, ma solo di quelli che ha contribuito a causare, non adottando le necessarie misure di prevenzione e protezione. 

Certo, si poteva obiettare che, se il rischio da Covid 19 è ormai entrato di forza nella valutazione dei rischi di tutte le aziende, quantomeno si deve dare modo agli imprenditori di conoscere, in modo chiaro e certo, quali siano le misure di sicurezza da adottare per prevenirlo.

E allora qual è il contributo in termini di chiarezza offerto da questa nuova norma?

In termini pratici, mi pare che si richieda all’imprenditore uno sforzo innanzitutto di ricerca delle varie linee guida emanate a livello nazionale e regionale, oltre che di esegesi comparata, al fine di individuare quelle che, almeno in astratto, si attaglino meglio alla propria attività, andando eventualmente a “pescare” nel mare magnum degli “ambiti analoghi”, con il dubbio poi di dover scegliere tra indicazioni nazionali e regionali non perfettamente concordanti.

 L’art. 29 bis prevede infatti: “Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. L’obbligo di cui all’art. 2087 CC si ritiene così assolto applicando il protocollo condiviso del 24 aprile 2020, nonché gli altri protocolli e linee guida (vedi art. 1, c. 14 citato) “idonei a prevenire o ridurre il rischio di contagio nel settore di riferimento o in ambiti analoghi, adottati dalle regioni o dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome nel rispetto dei principi contenuti nei protocolli o nelle linee guida nazionali. In assenza di quelli regionali trovano applicazione i protocolli o le linee guida adottati a livello nazionale”.

Faccio un esempio: la Regione Toscana ha sempre considerato preferibile, come misura di distanziamento, gli 1,8 metri, anziché 1 metro, come invece previsto a livello nazionale.

Pur essendosi adeguata all’obbligo di distanziamento di 1 metro con l’ordinanza n. 48, ha continuato a “raccomandare” il distanziamento più ampio, non già in modo arbitrario, ma argomentando tale affermazione sulla base di studi scientifici. 

Ora, se l’art. 29 bis conferma la riconducibilità all’art. 2087 CC di tutte quelle misure che siano ritenute più idonee, anche da linee guida regionali, a prevenire il contagio da Covid 19 (tanto più che la disposizione in questione usa alla stregua di sinonimi il termine “prescrizioni”, che alluderebbe ad un ordine dato da un’Autorità, con quello ben più generico di “misure”), non v’è dubbio su quale distanza la Regione Toscana ritenga “più idonea”. 

Non solo. Dal momento che, come sappiamo, le norme di comportamento anticontagio sono state costantemente aggiornate e talvolta persino contraddette anche nello stesso ambito scientifico (si veda la querelle su mascherine e guanti), l’imprenditore dovrà anche verificare in itinere l’attualità di protocolli e linee guida, adottando eventuali modifiche in tempo reale. 

In altri termini, l’art. 29 bis sopra citato è una disposizione che si riferisce ad una norma aperta ed elastica, l’art. 2087 cc, e tenta di definirne il contenuto, richiamando altre norme (linee guida e protocolli) che tuttavia, a loro volta, non solo rimandano ad altre fonti, ma soprattutto richiedono in ogni caso all’imprenditore di modellare le norme di sicurezza sulla propria realtà produttiva, nonché di verificarne l’efficacia nel tempo: il Protocollo del 24.4.2020 prevede infatti che l’imprenditore debba comunque integrare le misure ivi previste “con altre equivalenti o più incisive secondo le peculiarità della propria organizzazione”, previa consultazione delle rappresentanze sindacali aziendali. 

Occorre poi sottolineare che, in base all’art. 2087 CC, il datore di lavoro è responsabile per non avere adottato le misure che siano in grado di impedire e prevenire l’infortunio, mentre l’art. 29 bis richiama l’imprenditore all’applicazione tout court dei Protocolli. 

Se quindi il datore di lavoro ha provveduto a distanziare i dipendenti, li ha dotati di mascherine, li ha formati sulle procedure anticontagio … insomma, ha applicato ogni misura di protezione immaginabile, ma non ha mai costituito o convocato il “Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo” (punto 13 del Protocollo condiviso del 24 aprile), allora potrà comunque essere ritenuto responsabile ex art. 2087 CC dell’infortunio/contagio da Covid 19, eventualmente occorso al dipendente? 

Insomma, come spesso accade nel nostro sistema giuridico, nel quale la volontà del legislatore è un criterio interpretativo ormai svilito da un eccesso di norme sovrabbondanti e mal scritte, anche l’efficacia e l’utilità di questa disposizione di legge non potrà che misurarsi con l’interpretazione che ne daranno i Tribunali – in sostanza, quello che si voleva evitare a monte. 

Così, mi sovviene il saggio consiglio dei miei insegnanti, durante le temute verifiche scolastiche: quando vorresti scrivere qualcosa in più, ma hai il dubbio che l’aggiunta sia inutile o addirittura sbagliata, allora è meglio non scrivere niente. 

 

Avv. Gaia Fratini

 

 #StudioFratiniTentiDiMeco

 

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