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Ché la diritta via era smarrita

 

Cittadini e imprese persi nella “selva oscura” dei provvedimenti adottati da Stato, Regioni ed Enti locali. La certezza del diritto messa a dura prova dal Covid-19 (anche a proposito dell’ordinanza della Regione Toscana n. 48 del 3.5.2020)

Nell’emergenza sanitaria causata dal Covid-19, non c’è bisogno di essere operatori di diritto per comprendere come l’epidemia abbia colpito anche il nostro sistema normativo, richiedendo uno sforzo interpretativo che ha raggiunto esiti talvolta farseschi.

Una volta esaurito l’effetto comico dei tormentoni social su chi siano davvero i “congiunti” o sull’ennesimo modulo di autocertificazione, dobbiamo prendere atto che qualche problema di chiarezza (e quindi efficacia) delle norme c’è.

Non voglio addentrarmi in questa sede tanto nel problema, sollevato da più parti, della legittimità costituzionale dello strumento DPCM – estraneo alla dinamica parlamentare – quale fonte suprema del diritto in tempo di Covid-19. Il problema è stato in qualche modo superato dal D.L. n. 19/2020, che ha legittimato i vari provvedimenti, non solo statali, adottati nella pressione dell’urgenza sanitaria. 

Certo, la Dottrina ci insegna che non esiste nella nostra Costituzione uno specifico “diritto dell’emergenza”, fatta eccezione per la decretazione d’urgenza che, comunque, ha il pregio di consentire un vaglio da parte del Parlamento, quantomeno in sede di conversione.

Ma se non esiste nella Costituzione un “diritto speciale per tempi eccezionali”, come ci ha ricordato anche la Presidente della Corte Costituzionale nella sua relazione sull’attività della Consulta per l’anno 2019, e dobbiamo quindi rimettere le nostre speranze alla leale collaborazione fra le Istituzioni (principio, questo sì, presente nella Costituzione), vedendo la situazione attuale allora lo smarrimento del cittadino non è soltanto giustificato, ma potenzialmente dannoso per la tenuta dello stesso impianto normativo.

Già non è facile, per chi abbia studiato un po’ di diritto, incappando sin da subito in un ostacolo concettuale non da poco, conosciuto come “il sistema delle fonti”, architrave di ogni possibile ragionamento giuridico successivo, accettare che, attualmente, le c.d. FAQ (frequently asked questions) abbiano quasi assunto il rango di fonte primaria. 

Ma la questione è ben più seria se un sistema di norme, che vengono adottate per affrontare un notevole pericolo per la salute collettiva e che, pertanto finiscono, inevitabilmente per entrare in collisione con altri diritti e libertà fondamentali, diventa incomprensibile per il suo destinatario.

Le norme giuridiche sono, in definitiva, norme di comportamento (fai questo, non fare quello), cui si ricollegano delle conseguenze. Se la norma è chiara, il destinatario potrà scegliere di aderire o meno a quel precetto, assumendosene la responsabilità e subendone le conseguenze. Inoltre, se veniamo messi nella condizione di comprendere le finalità, la ratio della regola imposta, è verosimile che vi sia una maggiore adesione al precetto. 

Al contrario, qual è la percezione del cittadino, se i provvedimenti Statali, Regionali e persino Comunali, entrano in competizione, e non già una competizione virtuosa, ma conflittuale, portata fino allo scontro istituzionale? 

Questo può succedere, perchè la tutela della salute è una materia che coinvolge varie Istituzioni: in base all’art. 117 della Costituzione, è riconducibile alla competenza legislativa concorrente, per cui lo Stato deve limitarsi ad indicarne i principi fondamentali, per poi lasciare alle Regioni la possibilità di esprimersi all’interno si questa cornice.

Dobbiamo però ricordare che, al contempo, lo stesso articolo attribuisce competenza esclusiva allo Stato nelle materie c.d. trasversali, come la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni (lett. M), a garanzia dell’uniformità di trattamento dei cittadini sull’intero territorio nazionale e, ancora, lascia alle Regioni in via residuale il compito di disciplinare tutto ciò che non rientri nelle materie espressamente riservate allo Stato.

In questo quadro, già si per sé articolato, si innestano le norme che conferiscono alle Regioni il potere di emanare “ordinanze contingibili e urgenti” in caso di emergenza sanitaria, come l’art. 117 del D.Lgs. n. 112/98  o l’art. 32 della Legge n. 833/78, istitutiva del Sistema Sanitario Nazionale.

Nel tentativo di riportare un po’ di ordine, il D.L. n.19/20 ha stabilito che le Regioni possano prevedere, limitatamente al proprio territorio, e solo in caso di situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario, misure “ulteriormente restrittive” nelle attività di loro competenza e senza incisione sulle attività strategiche per l’economia nazionale, misure che, peraltro, sarebbero destinate comunque a perdere efficacia una volta entrato in vigore il successivo DPCM (ma il condizionale è d’obbligo, dal momento che non è chiaro se tale effetto possa prodursi automaticamente e considerato che, comunque, la Regione potrebbe reiterare nuovamente la propria ordinanza, come già successo).

Eppure si è già verificato che alcune Regioni abbiano inteso il proprio potere, per così dire “derogatorio” rispetto al DPCM, in senso ampliativo, e non già restrittivo.

E’ stato il caso dell’ordinanza n. 29 del 29.4.2020 della Regione Calabria, che ha anticipato la data di riapertura di attività di somministrazione all’aperto rispetto a quanto previsto dal DPCM, pur con il mantenimento di una distanza di sicurezza di 1,5/2 metri. Lo Stato ha già dichiarato di voler impugnare questa ordinanza per conflitto di attribuzioni davanti alla Corte Costituzionale, ma già si assisteva alla levata di scudi di alcune amministrazioni comunali, che annunciavano “contro ordinanze”, volte ad annullare gli effetti della norma regionale, in favore di quella Statale.

E non è improbabile che abbia sorte analoga l’ordinanza n. 20 del 2.5.2020 della Regione Sardegna, che, a sua volta, anticipa la riapertura (con obbligo di distanziamento a 2 metri) delle attività di servizi alla persona, rispetto alla data del 1° giugno disposta dal DPCM. 

Insomma, agli albori della c.d. Fase 2, il confronto tra istanze inevitabilmente confliggenti, di tipo sanitario ed economico, finisce per tradursi in un conflitto Istituzionale e quindi, per creare incertezza normativa.

E questo purtroppo non solo quando le Regioni vadano ad “allentare” le maglie della normativa statale, con provvedimenti in effetti di dubbia legittimità, ma anche quando, in applicazione di quello che appare come un legittimo principio di precauzione sanitaria, finiscono per aggravare i limiti già previsti a livello Statale sulle libertà individuali. 

Un esempio è quello dell’ordinanza della Regione Toscana n. 38 del 18 aprile 2020, sulla salute e sicurezza in tutti gli ambienti di lavoro non sanitari, di cui abbiamo già avuto modo di parlare, con la quale era stata imposta una misura di distanziamento sociale pari a 1,8 metri, laddove la normativa nazionale prevedeva invece una distanza di sicurezza pari ad un metro.

Questa più ampia misura di distanziamento, che veniva giustificata dalla Regione sulla base di indicazioni fornite dalla ricerca della “School of Medicine dell’Università di Washington, monitorata dall’OMS” (studio secondo cui “la gravità della carica infettiva dovrebbe precipitare a circa due metri di distanza dall’emissione”), più che da un “aggravamento” del rischio epidemiologico in Toscana, comportava importanti conseguenze per tutte le attività economiche, obbligate a tenere conto, nell’approntare le proprie misure organizzative, di una distanza di sicurezza quasi doppia rispetto a quella nazionale.

Il provvedimento in questione è stata poi superato dalla successiva ordinanza n. 48 del 3.5.2020, con la quale la Regione Toscana si è adeguata allo standard statale di un metro, pur ribadendo di ritenere preferibile il distanziamento di 1,8 metri, che rimane “consigliato, ove possibile”.

Questa parziale inversione di rotta non appare però soddisfacente in termini di certezza del diritto, neanche per gli imprenditori che pure ne beneficeranno.

Viene infatti da chiedersi cosa significhi, in punto di responsabilità datoriale sulla salute e sicurezza dei lavoratori, prevedere una misura di sicurezza, ed indubbiamente quella del distanziamento è la più importante, che è caldamente raccomandata “ove possibile”, benché non obbligatoria.

Innanzi tutto, cosa significa “ove possibile”? La possibilità riguarda solo l’aspetto tecnico, ovvero la mera misurazione dello spazio fisico a disposizione in azienda diviso per la forza lavoro, oppure coinvolge anche valutazioni  imprenditoriali, ad esempio se sia possibile organizzare i turni dei dipendenti o le modalità di lavoro (vedi alla voce smart working), in modo da rispettare la distanza consigliata?

E ancora, prevedere in termini di “consiglio” il distanziamento ad 1,8 metri consentirà magari di non far scattare sanzioni amministrative nei confronti del datore di lavoro che si adegui alla distanza obbligatoria di 1 metro; ma possiamo ragionevolmente escludere che, ai fini della valutazione della responsabilità datoriale in caso di infortunio per contagio da Covid-19, questa “raccomandazione” non verrà considerata una misura più idonea, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, a tutelare la sicurezza del prestatore di lavoro in un determinato momento storico, come prescrive l’art. 2087 C.C.?

E infine, siamo convinti che imporre una data misura di distanziamento ma, al contempo, affermare che se ne ritiene preferibile una maggiore, possa riportare fiducia nel cittadino e nel lavoratore, alla ricerca di una nuova normalità?

Ancora una volta la responsabilità è lasciata a ciascuno di noi ed al nostro buon senso, con buona pace della certezza del diritto.

 

Avv. Gaia Fratini

 

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